Visto che il coronavirus, costringendomi a stare in casa, mi concedeva comunque più tempo del solito per dedicarmi alla lettura, mi è venuta la singolare stravaganza di andare a rileggere le pagine dei Promessi Sposi in cui Manzoni parla della peste di Milano. Sono pagine, di cui a scuola si leggono solitamente pochi brani e che invece, a rivederle mi sono sembrate interessantissime. Stramberie di un vecchio professore? No! A me è sembrata una salutare lezione di storia, fatta dal Manzoni con diligenza scrupolosa e senza venir meno ai suoi principi morali e artistici.
Il 20 ottobre del 1629 il protofisico (medico primario) Lodovico Settala, dava notizie del contagio al tribunale della sanità, senza che per questo venisse presa alcuna risoluzione, nemmeno con “la grida per le bullette”, emanando cioè un decreto che ripristinasse in caso di contagio le bullette, i certificati attestanti lo stato di salute di chi si recava da una città all’altra. La grida fu poi pubblicata il 29 novembre, più di un mese dopo, quando la peste era già entrata in Milano.
Chi ce la portò per primo fu un soldato italiano al servizio della Spagna, che si presentò in una casa di suoi parenti “con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni”, e che si ammalò e morì nel giro di quattro giorni.
E poiché tutti erano persuasi che i provvedimenti del tribunale della sanità, di bruciar robe, sequestrare case, mandare famiglie al lazzaretto “fossero vessazioni senza motivo e senza costrutto” si creò odio e avversione nei confronti di coloro che suggerivano precauzioni per arginare il contagio, accusati di “far bottega sul pubblico spavento”.
In pochi giorni la situazione divenne sempre più grave nella città di Milano e in particolare nel lazzaretto; il tribunale della sanità e i decurioni, allora, “non sapendo dove batter il capo” si rivolsero ai cappuccini per affidare loro la direzione “di quel regno desolato” affidandola a padre Felice Casati, che fu di una dedizione e di una capacità esemplare, si ammalò di peste, ma ne guarì, mentre i suoi confratelli “che furono soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai…ci lasciarono la più parte la vita e tutti con allegrezza”: un manipolo d’eroi.
Ma mentre la peste infuriava, si accresceva sempre più il numero delle persone disposte ad attribuirla non a cause naturali, ma ad “arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe”. Di qui il passo all’idea degli untori fu breve. Il delirio si impossessò della gente, in mezzo alle reali sventure, e incominciò la caccia agli untori. Dice Manzoni con una battuta folgorante “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.
Intanto, la popolazione oppressa dal flagello richiese al cardinale Federigo Borromeo, che alla fine cedette alle pressioni, una solenne processione per la città con il corpo di San Carlo. La processione si svolse con una grande partecipazione di folla e subito dal giorno dopo le morti aumentarono a dismisura “con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa”.
La mortalità giornaliera cominciò a superare i cinquecento soggetti, raggiungendo nel colmo i tremilacinquecento. La città fu ridotta da duecento/duecentocinquantamila a sessantaquattromila abitanti. Il lazzaretto si riempì a dismisura: “bisognava rifornirlo di medici, chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria: bisognava trovare e preparare nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in tutta fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzaretto…”
Anche una piccola notazione di natura igienico-sanitario nel romanzo mi ha colpito: Renzo passando per Monza, vide la bottega aperta di un fornaio e chiese due pani. “Il fornaio gl’intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con certe molle, gli porse, l’uno dopo l’altro, i due pani, che Renzo si mise uno per tasca.” Lo stesso Renzo poi riuscì ad entrare a Milano da una delle porte principali lanciando da lontano alla guardia un mezzo ducatone senza che nessun’altro si accorgesse di lui.
Quante analogie e coincidenze con le vicende che abbiamo vissuto e viviamo con il coronavirus!!! Ognuno può trarle da solo. Dai ritardi nel prendere provvedimenti, alle opinioni di piccoli e potenti che minimizzavano e ancora minimizzano, dalle fake news ai comportamenti irresponsabili e illegali, dai grandi eventi sportivi con decine di migliaia di spettatori alle pratiche religiose affollate. Appare perfino incredibile il legame con la Germania che unisce il primo portatore di peste e il paziente zero italiano del coronavirus.
Una considerazione a margine: dobbiamo indagare un po’ di più la storia e assumerne utili insegnamenti.
Gaetano Lo Monaco