DELIRIO DI ONNIPOTENZA
Ancora oggi, come una sorta di millenario leitmotiv, accade che l’uomo del nostro tempo possa autoproclamarsi “suprema creatura pensante” in grado di governare la materia, il mondo, e persino le energie metafisiche, o il volere di potenti divinità in cui generosamente identificarsi. E in pieno delirio di onnipotenza, ricorre però, oscuro, il rovinoso vivere della dimensione bellica. Invero, per noi umani questo è un tempo in cui, dimentichi di essere pulviscolo, particelle infinitesimali disperse nell’immane vitalità cosmica, siamo stupidamente artefici dei ricorrenti abissi della nostra stessa storia. E allora, paradossalmente, impieghiamo il nostro “ragionar scientifico” beandoci dello stridere metallico degli arsenali bellici e della macabra danza di droni sulle teste degli innocenti. Ma non basta, sventriamo e bruciamo foreste, plastifichiamo i mari, intossichiamo l’aria. Tutto quanto come se non fossimo noi stessi a perire per i veleni di ogni sorta negligentemente riversati su tutto il pianeta. E scambiamo pure l’oscuro, minaccioso rombo dei sofisticati caccia bombardieri, per eccitante musica del “divino progresso tecnologico”.
Ma a sfida degli abissi della storia forte è il richiamo al retaggio delle più antiche civiltà che da sempre, dai tempi dei tempi, di generazione in generazione, sono dedite alla ricerca di possibili armonie dell’umano pacifico vivere.
Così la plurimillenaria esperienza del teatro soccorre gli uomini nel bisogno primigenio di indagare le altrimenti imperscrutabili vicissitudini terrene: perché il male?, Perché la violenza? L’amore può salvare?
LISISTRATA, COLEI CHE SCIOGLI GLI ESERCITI, A SIRACUSA
Quest’anno, nel pieno delle numerose tempeste belliche, ad opprimere la quiete degli innocenti – colei che scioglie gli eserciti – Lisistrata di Aristofane rivive, nel rito della finzione scenica, col proposito di immaginare possibili vie d’uscita dalle trappole del paradigma guerrafondaio.
Il Teatro Greco di Siracusa si offre come luogo simbolico altamente deputato all’ideazione scenica, quasi come esperienza totalizzante: dove celebrare, interrogandoli, i miti, le religioni, la politica. In tal guisa ci si reca al teatro non certo da muti spettatori, ma da componenti scientemente partecipi di un’assemblea cittadina in cui finzione recitante e realtà storica confluiscono in una vibrante narrazione catartica. E a Siracusa già l’incontro con la toponomastica della città rievoca l’antica grecità del sito: disseminati per le vie e le piazze trovi i nomi di Socrate, Platone Archimede, Dionisio, Euripide, Senofonte, Dione, Diana, Apollo ed altri ancora. Ti sembra quasi di vederli in azione e ascoltarne i miti o i saggi racconti: ti sembra persino di percepire l’eco delle feste dionisiache. Anche se meno edificanti però sono le memorie delle Latomie: luoghi in cui ti senti ancora toccato dai lontani lamenti degli ateniesi, ivi imprigionati e lasciati morire di inedia e di letame nel corso della guerra del Peloponneso. Ma può consolare la narrazione di Tucidide secondo la quale i pochi sopravvissuti uscirono da quell’inferno terreno grazie ad un’arma speciale, “la poesia”: “alcuni liberati dalla schiavitù per aver insegnato tutto ciò che di Euripide ricordavano a memoria, altri che, mentre vagavano dopo la battaglia, ricevettero cibo ed acqua per aver cantato le sue melodie” . Oggi le latomie sono floridi giardini dove la natura, l’arte e la cultura si pongono come sfida a remote e nuove barbarie.
LO SCENARIO FRA NATURA E CREAZIONE TEATRALE
Così, raggiunto l’ingresso del “Parco Archeologico della Neapolis” siracusano, respiri essenze floreali uniche e l’occhio gioisce della plurisecolare rigogliosa vegetazione: magica cornice attorno al seducente riverbero di quella bianca pietra narrante, dove antiche generazioni di greci e romani depositarono dolori, gioie, speranze.
L’allestimento scenico di Lisistrata si presenta come “luogo senza tempo” ,voluto dalla regista Serena Sinigaglia per indicare che sul palco andrà a riproporsi l’eterno quesito del perché della violenza fra gli uomini. Da spettatore ti lasci catturare da un groviglio di fili di lana rossa: sembrano quasi lunghi rigagnoli di sangue, se gli occhi si posano sul selciato della scena; ma, se lo sguardo si leva alto, allora all’origine dei fili rossi trovi qualcosa che richiama a un grande telaio antico. Sul piano simbolico le due visioni potrebbero rimandare all’immane dilemma di una umanità al bivio: irretita nell’hobbesiana barbarie “dell’homo, homini, lupus” : uomini sempre in guerra, sempre a caccia di “nemici” da scannare, mai appagati di sangue umano; oppure pensare se non è più facile, per uomini e donne insieme, coltivare le relazioni di aristotelica memoria; se non è più facile, dunque, “tessere fili di amicizia che farsi la guerra”.
LA TRAMA: danzare la vita nell’amore e non fare la guerra
Lisistrata di Aristofane ci riporta alla fine del tempo della pentecontaetia: un periodo di mezzo secolo di pace dalle guerre greco-persiane. L’antica Grecia ha conosciuto un periodo d’oro in cui, filosofia, scienza, arte, architettura, lettere, teatro erano rigogliosamente fiorite. Ma Pericle è divenuto potente al punto tale da travalicare il giusto per affermare l’egemonia ateniese contro quella di Sparta nel mondo greco. Si dà luogo, in tal modo, a nuove sanguinose guerre. D’altro canto, oggi come allora, potere, imperialismo, ricchezza sono i mali che ancora muovono armi ed eserciti.
Ma le donne non ci stanno, Lisistrata, ateniese, convoca la spartana Lampitò, e propone l’occupazione dell’Acropoli per impedire l’accesso al denaro che serve a finanziare gli eserciti. In più, con giuramento solenne, le donne, riunite, stanche di vedere i mariti sempre assenti e impegnati a fare la guerra, decretano lo sciopero del sesso, fintanto che non sarà firmata la pace.
A contrasto di una passerella di pavidi maschi, dal palco, dura si leva la protesta delle donne che con voci altisonanti in coro cantano la ferma decisione di voler “danzare la vita e mai smettere di danzarla”. Ma i maschi ostentano l’elogio “dell’erezione perenne e l’illusione dell’eterna virilità, – persino da vecchi – a garanzia della fertilità della specie umana.
La vicenda si permea di dubbi, incertezze e fragilità avvertite da ambo le parti in disputa. I maschi cominciano a realizzare che senza le donne “l’aria è asfissiante”. Le donne temono di essere comunque prese con la violenza, ma a ben riflettere in tal caso agli uomini non è garantito il piacere e, soprattutto, il darsi con reciproco amore. E ancora, c’è chi esprime la difficoltà di poter rinunciare al ruolo di madri e mogli affettuose. Qualcuna, per giustificare la necessità d’incontrare il proprio uomo, inscena una gravidanza inesistente. Lisistrata, pazientemente assertiva, disvela il maldestro espediente poiché, al tocco, il supposto ventre materno risuona di rumore metallico e da sotto le vesti appare, custodito, l’elmetto di un soldato. Forse, fintanto che le cose non cambiano radicalmente, le stesse donne non sanno immaginare altro che partorire maschi soldato e non cittadine/i di pacifiche comunità.
Ciononostante, dal coro femminile si leva la forza di chi è abituato a tenersi dentro, sofferenze, dolori, tragedie, ma rialzarsi e perseverare nelle decisioni prese. Lisistrata annuncia allora che poiché gli uomini, “non fanno altro che fare la guerra per fare soldi”, ministre dell’encomia dovranno essere le donne per u’amministrazione pubblica di pace. Un ardito prefetto in divisa controbatte ordinando a Lisistrata di pensare a tessere, perché la guerra e la pace sono prerogative dei maschi.
La danza della pace, la catarsi, il desiderio, la speranza
Con voce pacata, ferma, intelligente, visionaria, Lisistrata sottolinea come proprio le donne, da sempre avvezze a l’arte del telaio, abbiano potuto sviluppare la sapienza di sbrogliare fili tortuosamente annodati e individuare quelli giusti per intrecciare oculatamente: “ordito e trama, ordito e trama fino a tessere un grande mantello protettivo per il popolo”.
Infine gli uomini, fra deliri di astinenza sessuale e desiderio d’amore, firmano la pace. Musiche e danze incedono rinnovate a sedare gli animi, dopo il lungo travaglio vissuto prima di porre fine a dispute e violenze. La pace vive gli ultimi momenti di dolore sotto un opprimente tunica rosso sangue; lentamente se ne libera e un esile corpo di donna si svela in tutto il suo splendore, delicatamente avvolto da un trasparete manto bianco. La donna lieve col manto disegna nell’aria grandi ali bianche che vibrano libere sopra l’universo di una umanità finalmente ricongiunta.
Il caso vuole che dall’imbrunito cielo siracusano veloce si dissolve una stella cadente mentre dal palco echeggia l’onirico canto di PACE E LIBERTÀ: una felice espressione della catarsi finale, del desiderio e della speranza di un futuro migliore di quello che sembra delinearsi in questo nostro funesto tempo di caos guerrafondaio.
Lucia Muscetti