Sono già passate alcune settimane dall’inizio dell’attuale emergenza sanitaria, che ha portato l’opinione pubblica a concentrarsi sulla difficilissima situazione che i nostri sanitari stanno affrontando. Il periodo trascorso è adesso sufficiente per alcune riflessioni, certamente non le uniche possibili, sulle necessità anche di carattere psicologico, esplose all’interno degli ospedali.
Con questo non vogliamo mettere in secondo piano le altre sofferenze: quelle della cittadinanza, dei familiari che piangono i loro morti, morti senza la vicinanza dei loro cari e senza la possibilità del rito funebre, ma tutto questo merita un discorso a parte; al momento guardiamo ai bisogni psicologici emersi tra i sanitari, la cui presa in carico ha comunque grandissime ricadute su noi cittadini pazienti o familiari di pazienti.
Adesso
Lo sapevamo già ma il covid 19 ce lo ha sbattuto in faccia: negli ospedali viviamo le esperienze più dolorose che segnano l’esistenza di ciascuno. La malattia e la morte hanno infatti come “luogo”, nelle società occidentali, le strutture ospedaliere. Esse assumono così i connotati non solo di un “posto” fisico di cura, ma di uno “spazio esistenziale” in cui albergano vissuti ed emozioni profonde. In prima battuta siamo indotti ad identificare nei pazienti e nei loro familiari i depositari di tali esperienze, ma il covid 19 ci ha ricordato e sbattuto in faccia appunto che questa è una verità parziale.
Tutti abbiamo davanti agli occhi i volti stravolti, dolenti, angosciati del nostro personale sanitario. Ad essere citati sono sempre medici ed infermieri, ma non sono certamente gli unici: tecnici sanitari, farmacisti, biologi, personale di assistenza e tante altre categorie che operano nelle strutture di degenza, stanno vivendo un momento drammatico. Infatti non solo sono state stravolte le vite personali e professionali, ma è stato anche chiesto, per così dire, di farsi carico di un “supplemento di umanità”: accompagnare al termine della vita chi non ce la fa, sostituendosi ai familiari per i quali è impossibile avvicinarsi .
Sappiamo anche che l’umanità, la disponibilità, l’abnegazione, il sacrificio da soli non bastano per affrontare momenti così difficili, che è necessaria la presenza di un pensiero “psicologico” di base che dia orientamento in frangenti di questo tipo. Vivere con la malattia e la morte come compagne di lavoro non è certamente facile. Una Sanità evoluta non può prescindere da queste consapevolezze.
Come accompagnare i pazienti, lontani dai loro familiari, nelle fasi finali della loro vita; come comunicare a questi ultimi gli eventuali decessi e restituire gli effetti personali; come dare sostegno psicologico al personale sanitario gravato da compiti con possibili esiti traumatici (la Psicologia Dell’ Emergenza chiama il personale di cura traumatizzato “vittima di III tipo”), sono alcuni dei temi che si sono imposti nel dibattito di queste settimane drammatiche.
Bisogna imparare da questa esperienza e bisogna, anche se può sembrare prematuro, già pensare al dopo.
Quella che è apparsa evidente, in tantissime realtà, è stata l’assenza di Servizi di Psicologia Ospedaliera strutturati e già operativi, cui si è tentato di sopperire con la lodevole mobilitazione professionale avvenuta ad ogni livello. Ma non è pensabile che in luoghi come gli ospedali in cui, emergenza o meno, il “dolore” è di casa, non vi sia una presenza strutturata e stabile di Servizi Psicologici a sostegno di tutte le parti in causa, che ancora una volta ripetiamo sono: i pazienti, i familiari, ma non ultimi i sanitari stessi che ora più che mai, stanno lavorando in condizioni estreme. Una presenza strutturata, già organizzata e presente “in tempo di pace”, (perché anche la normalità, ma la malattia e la morte non sono mai normali, reclama l’assistenza psicologica, non dimentichiamolo!), permette di affrontare al meglio emergenze di questo tipo: gli interventi possono essere tempestivi e consentire l’utilizzazione delle eventuali necessarie dotazioni tecnologiche (si pensi alla necessità attuale di lavorare da remoto) nonché fruire delle protezioni sanitarie per contenere i rischi di contagi.
Tutt’altra cosa è organizzare questi servizi ad emergenza deflagrata.
Dopo
Adesso siamo colpiti dai visi dei nostri sanitari, volti segnati da ore e ore di lavoro, visi segnati dai lutti. In questo momento il nostro appoggio sociale nei loro confronti è incondizionato, la solidarietà e la vicinanza sono palpabili in tutti i messaggi dei media. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che ci sarà un dopo. Un dopo in cui, quando tutto sarà finito e noi potremmo essere più distratti, i nostri sanitari potrebbero vivere, dopo l’adrenalina che li ha tenuti efficienti in questi mesi, la condizione di “reduci”, di coloro cioè che rientrano dal campo di battaglia, condizione questa che, dal punto di vista psicologico, non è più semplice di quella di vivere “al fronte”: dopo il “pieno” di queste settimane veramente eroiche, con l’enorme consenso e solidarietà che hanno determinato a tutti i livelli, potrebbe venire il “silenzio” della normalità; dell’assenza del supporto sociale percepito; della rielaborazione emotiva; della possibilità di tornare, questa volta da soli, con la mente a tutto ciò che si è vissuto e attraversato, al dolore che si è incontrato e del quale si è rimasti impregnati, con la conseguente necessità di un ulteriore faticoso riadattamento. Sarà un momento complesso e rischioso in cui non si può essere lasciati da soli.
Si renderà ancora più evidente, se mai ve ne fosse bisogno, la necessità della presenza di Servizi Psicologici stabili all’interno degli Ospedali.
Tuttavia questo non basterà, sarà indispensabile, nel dopo, anche un’altra prospettiva culturale generale: un nuovo patto sociale tra cittadini e sanitari.
Dopo anni di atteggiamenti denigratori , che il termine “malasanità” ha sintetizzato nel linguaggio comune, adesso sembra che possa aprirsi una fase diversa, una fase imposta dal covid 19, basata su una nuova relazione di fiducia.
Il personale sanitario, in modo spesso massivo e acritico, è stato criminalizzato per lungo tempo; non nascondendo le ragioni che possono esserci alla base di questa sfiducia, bisogna però avere consapevolezza di come i notevoli tagli alla spesa sanitaria pubblica abbiano potuto influire sulla qualità delle prestazioni, creando altresì condizioni di lavoro proibitive all’interno degli ospedali o dei servizi territoriali. C’è ora invece finalmente la consapevolezza della priorità assoluta che la Sanità Pubblica Nazionale rappresenta, consapevolezza che si estende anche al fatto che, visto che i nomi identificano la realtà, l’associazione tra il termine “salute” ed il termine “azienda” è totalmente inadeguato (sarebbe opportuno non parlare più di “Aziende Sanitarie” ma magari tornare al vecchio termine di “Unità Sanitarie”).
Ebbene, un pensiero psicologico può dare un notevole contributo al recupero di questo rapporto di fiducia tra cittadini e sanitari. La Psicologia, con dei servizi strutturati e operativi, è in grado di fornire ad entrambi spunti di crescita considerevoli, può contribuire ad una concezione più evoluta del rapporto tra salute e malattia, contribuendo, con gli strumenti specifici a sua disposizione, al recupero non di una tecnica, ma di un’etica e una competenza delle relazioni, un’etica e una competenza che permettano di sostenere in modo efficace la sofferenza psicologica enorme che la malattia comporta, sofferenza di cui anche i sanitari, insieme a pazienti e familiari, sono vittime nel loro compito di cura.
Questa è una delle sfide dei mesi ed anni a venire. Se vogliamo possiamo anche pensare ad una base filosofica oltre che psicologica per tutto questo: l’essere umano non è scindibile, la salute non si può poggiare su una concezione dicotomica di corpo e psiche, l’essere umano è uno. Una base unitaria ci aiuta certamente a rendere più umano il concetto di cura, che è ciò di cui abbiamo bisogno nella nostra cultura iper-specialistica, chiunque sia in gioco.
Antonio Roberto Cascio
Psicologo Psicoterapeuta – Esperto in Psicologia Delle Emergenze