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Sicurezza: dal prêt-à-porter alla complessità

Sicurezza prêt-à-porter sembrerebbe oggi la definizione conferente con la modalità “rudimentale” con cui taluni si accostano alla complessa problematica della sicurezza.

Per il vero va osservato che nella stagione del pensiero breve ed istantaneo –affermatosi da qualche lustro e consolidatosi  con i social- tutte le questioni che interessano la polis vivono nel dibattito pubblico e nel sentire di larghe fasce della comunità questa dimensione riduzionistica, minimalista.

Tale indebolimento della sistemazione teorica si  confà al marketing politico centrato sugli slogan e sulle scorciatoie cognitive che caratterizzano il tempo  della post verità, in cui più dei fatti valgono le emozioni e i   convincimenti personali, sovente strumentalizzati  per finalità di captazione dei consensi.

E’ quanto è successo in materia  di sicurezza che è stata di “brandeggiata”, alimentando la paura della collettività nonostante tutti gli indici della delittuosità accreditino, e già da qualche anno, significativi e generalizzati decrementi. Tale disallineamento tra sicurezza reale e percepita  -per quanto  noto – non ha giovato alla ricomposizione della emotività collettiva.

Un intenzionale cortocircuito è stato, poi,  fomentato legando il senso diffuso della insicurezza  alla questione immigrazione, segnalata dalla stessa comunicazione mediatica e politica come una inquietante invasione di potenziali terroristi e delinquenti.

Innegabile, peraltro, che questo approccio è la espressione del nostro modo di situarci e di percepirci nel mondo, fortemente orientato al se, ripiegato su un individualismo esasperato (speculare – nei macro sistemi- degli egoismi nazionali),  in cui prevale la visione egoica sulla dimensione collettiva.

In questa temperie l’hospes è diventato l’hostis e si è sviluppata un sistema orientato alla immunitas, cioè sul bisogno di  difenderci da qualcosa o  da qualcuno, utilizzando o meglio distorcendo un sentimento di identità da preservare da pretese pericolose contaminazioni o aggressioni.

Da questo sentire  pulsionale che il mondo  di destra ha sostenuto con un accurato marketing ( efficace in tal senso  la espressione coniata di imprenditori della paura),  mutua le proprie ragioni la politica legislativa dei decreti sicurezza e dei porti chiusi (processo che prende le mosse  da Maroni ed approda a Salvini, passando per Minniti) che  una “studiata”  retorica comunicativa accredita come baluardo dei confini nazionali e  di presunte nobili radici.

Già qualche anno fa il compianto Luciano Gallino scriveva che «Oggi come allora gli avversari della democrazia circolano numerosi tra noi, ma stanno anche dentro di noi, nel perenne conflitto, ch’è a un tempo sociale e psichico, tra bisogno di sicurezza e desiderio di libertà; tra l’impulso di ridurre l’angoscia del futuro e del dover scegliere».

Questo è il rischio che stiamo correndo, quello  di “pretendere” la sicurezza a costo della libertà e  della democrazia.

Ed invero la illiberalità di alcune norme dei citati decreti e la compressione della dignità umana intrinseca al  blocco delle frontiere (dei porti) ed alla indiscriminata criminalizzazione della solidarietà (rimodulazione in negativo della accoglienza e  penalizzazione delle organizzazioni non governative impegnate nel salvataggio a mare) sono la inconfutabile testimonianza degli scenari presagiti da Gallino.

Al contrario,  una lettura attenta e non manipolata  della realtà effettuale consegna alla osservazione delle comunità un fenomeno – quello della sicurezza – che si caratterizza per una profonda complessità, del tutto rimossa dalla banalizzazione tratteggiata.

La sicurezza nel vissuto quotidiano delle comunità intercetta aspetti del vivere che evocano non solo l’esigenza di controllare i reati, di prevenirli e di reprimerli (persequendi atque removendi malum) in conformità alle regole scritte ma anche una dimensione diversa, più compiuta,  che si esprime come bisogno di una alta qualità della vita  (promovendi salutem).

In altri termini l’esigenza di sicurezza oggi include i più variegati versanti della vita che si svolge sul territorio: dalle buone relazioni con il vicino, alla rassicurante interazione con le istituzioni, all’agevole accesso ai servizi sociali, dal soddisfacente utilizzo degli  spazi pubblici (dalla strada ai marciapiedi, ai giardini pubblici, ecc) al libero uso di quelli privati (esercizio pieno del diritto di proprietà, ecc), fino a penetrare il vissuto emotivo delle persone.

Sulla multifattorialità che è alla base del logoramento del sentimento di sicurezza di larghe fasce della popolazione scriveva così Ilvo Diamanti:” altri fattori ben noti concorrono ad alimentare la paura dei cittadini: la società è insicura perché l’ambiente in cui vive è insicuro, perché i legami sociali si sono indeboliti, perché le città sono diventate invivibili e spesso meno vissute, perché il territorio si è degradato…… La società è insicura perché le persone (la sequenza delle categorie a rischio comprende gli anziani, sempre più soli, i bambini per la loro intrinseca fragilità,  le donne sempre più esposte alla violenza metropolitana, intrafamiliare) si sentono vulnerabili ed isolate, in un mondo che moltiplica tensioni,  minacce, povertà, incertezza sul futuro, violenza sulle cose, aggressività verbale, ecc. La società è insicura perché i media amplificano i fatti di violenza quotidiana. Per ragioni di spettacolo oltrechè di informazione. La società è insicura perché la politica invece di offrire certezze moltiplica le insicurezze………”

L’insicurezza,  diversamente  declinata come insicurezza  economica, sociale, civile, ambientale, ecc,  postula, allora,   un cambio “rivoluzionario” del paradigma oggi di moda. Abbiamo bisogno di trasformare il nostro sguardo  con cui guardiamo alla vita che ci circonda, rieducandoci a collocare il particolare nell’universale, l’individuale nel collettivo, il tassello nel mosaico. E lo dobbiamo fare per scongiurare la dissoluzione dei legami sociali. Colligite fragmenta…ne pereant,  insegnavano i padri latini.

In buona sostanza si impone l’imperativo di  lasciarci alle spalle  l’ego bellico,  arroccato dentro i muri della paura, una sorta di clausura (per dirla con Don Gnocchi)  in cui si è rinchiuso  e muoverci fiduciosi, speranzosi nelle spianate di quello  dialogico,  dove l’ “io” si sappia valorizzare nella feconda e nutriente relazionalità del “ noi”.

Occorre, pertanto, rivitalizzare la cultura della communitas. Si tratta di tornare ad essere consapevoli  della necessità di rafforzare e praticare  tale esperienza  comunitaria,  nel cui alveo collocare politiche della sicurezza  olistiche  ( in ragione della sua riferibilità ai variegati ed interconnessi versanti del vivere associato) e corali (la produzione del bene sicurezza nelle sue articolate componenti convoca i diversi attori/protagonisti dai poteri centrali a quelli locali, dai soggetti pubblici a quelli  privati, fino al co-protagonismo del singolo cittadino a dispiegare la propria azine/impegno nel quadro di una  progettualità/operatività integrata e strutturata).

La parola chiave è pertanto partecipazione. Lemma che nella nota canzone di Gaber intercetta e definisce anche la libertà. A significare  -in conclusione –  che libertà e sicurezza non si elidono ma si integrano nel quadro di un sistema di valori in cui la libertà è  valore presupposto e preminente.

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