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Costruire ponti di giustizia e sentieri di democrazia

Foto di Antonella Cascone

Foto di Antonella Cascone

La storia di Ragusa sembra oscillare tra un individualismo estremo che produce indifferenza e un’attenzione fanatica all’interesse collettivo ma, come il pendolo, non conosce solo due posizioni estreme: i comportamenti della comunità iblea, infatti, si dispongono su posizioni intermedie lungo una traiettoria ideale che comprende modi diversi di servire il bene comune, e che si possono condensare nell’espressione “impegno politico”.

È impegno politico quello di chi si candida ad amministrare il Comune, è impegno politico quello di chi, al di là degli appuntamenti elettorali, costruisce reti di relazioni umane e sociali ponendosi al servizio degli altri. I politici hanno un obbligo giuridico di promuovere percorsi di legalità nell’esercizio delle proprie funzioni (lo fanno?), i cittadini attivi agiscono per senso di responsabilità morale.

Il problema è che la nostra comunità è costruita ormai “a misura di cinquantenne”, espressione questa da intendersi non come dato anagrafico ma come insieme di convinzioni inamovibili e provinciali (pettegolezzo, amicizie importanti, egocentrismo) che costituiscono cultura egemone (v. nota).

In questo contesto, costruire sentieri nuovi di legalità per la giustizia sociale non è facile. In primo luogo, è palese la difficoltà di coinvolgere le persone: non si riconosce la ricchezza dei diversi processi di formazione di ognuno e si baratta la sintesi con la conflittualità. Si tende poi a focalizzarsi sull’emersione di “leaderismi” (forma patologica della leadership) e si perde di vista l’obiettivo finale che trascende gli individui per il bene comune. Infine, è scarsa l’attenzione verso le fasce deboli della città: quando non sono pensati come “fantasmi”, i poveri rimangono esclusi da tali percorsi, come se il problema non riguardasse loro più di chiunque altro.

Ciò è dovuto a un equivoco di fondo: la legalità non è il fine verso cui tendere, ma lo strumento che i cittadini, nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione, adottano per riequilibrare le disuguaglianze sociali, cioè un percorso di educazione alla democrazia “giusta” che richiede l’incontro, il dialogo, l’ascolto e la sintesi.

L’incontro presuppone una “uscita” dalla “mia” casa, dal “mio” gruppo sociale, dalla “mia” zona di comfort, e conduce al dialogo, da intendersi – vedi Habermas ne “L’etica del discorso” – come discorso razionale tra esseri uguali, liberi da condizionamenti, fondato sul presupposto che la posizione di tutti possa essere errata. È per questo che il dialogo non prescinde dall’ascolto: in una società rumorosa, dove chi urla ha ragione o pretende di averla, educarsi ad ascoltare significa riconoscere il valore dell’altro, di chi è “Altro” dal mio “Io”. La sintesi, alla fine, non è la regola di chi vince, né il centralismo democratico utile ai partiti, ma uno sforzo sincero di conciliazione che condensa in una sola proposizione la struttura dialogica.

È questo l’impegno che ciascun cittadino è chiamato ad assumere: tendere a una nuova democrazia, che ha bisogno di permeare ogni aspetto sociale, lavorativo, familiare della vita di ciascuno.

Nota: le nostre strade non hanno spazio per una mobilità alternativa all’automobile (tanto che i quattordicenni hanno dovuto imparare a guidare mini auto per circolare, con tutti i rischi connessi); la città non ha spazi di socialità gratuiti per chi non percepisce un salario (i giovani e le fasce più deboli restano esclusi dal dibattito pubblico); i presidi educativi (famiglia, scuola, centri giovanili, etc.) e le amministrazioni pubbliche non rispondono adeguatamente al bisogno di partecipazione ai processi decisionali della comunità cittadina che una fascia vitale di giovani esprime, non volendo abdicare alla noia e al disinteresse di tanti coetanei destinati alla rassegnazione.

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