
La mafie non sono un fenomeno, i fenomeni conservano sempre un alone di inspiegabile
mistero. La mafie invece si può analizzare, studiare, capire, raccontare, e per tale via
prevenirne gli effetti perniciosi, in termini di risvolti sociali ed economici con tutto il loro
portato di dolori e drammi umani. E allora non va perduta occasione per riunirsi attorno ad
eventi in cui le mafie possono essere raccontate, rese visibili, combattute, anche
quando non ammazzano. Perché in passato il crimine organizzato era visto solamente
come fenomeno violento, che disseminava morte quando qualcuno lo disturbava
parlandone e affrontandolo: come nel caso di tutti quei morti di mafia, prima lasciati
drammaticamente soli e poi eliminati.
Con questo spirito il 10 maggio la cittadinanza ragusana è intervenuta, numerosa,
all’Auditorium Vincenzo Ferreri di Ibla per partecipare al quinto evento di quest’anno
organizzato e proposto dalla Scuola dei Beni Comuni di Ragusa: Raccontare le mafia.
Diversi i nuclei di riflessione proposti a partire dalle nuove forme di radicamento nei
territori nazionali, globali, virtuali. In premessa, l’invito unanime del Magistrato Bruno
Giordano e dei relatori intervenuti a fare in modo che il giorno dopo non ritorni il silenzio
a rendere vani i sacrifici di quanti hanno combattuto, e di quanti ancora hanno il coraggio
di spendersi in prima fila per contrastare le mafie.
Le mafie dunque vanno studiate e raccontate, mentre il silenzio le rende invisibili, lascia
lo spazio a narrazioni senza rigore analitico e la dovuta contestualizzazione. Di contro
nello spazio mediatico si affastellano spettacolari stereotipi e luoghi comuni.
Nell’immaginario collettivo le mafie sono la fiction televisiva che semplifica la
complessità dei fatti e i protagonisti si polarizzano fra vittime ed eroi, buoni e cattivi.
Ma cosa accade davvero oggi?
I giornalisti Salvo Palazzolo della Repubblica e Attilio Bolzoni del Domani editoriale
raccontano della nostra criminalità organizzata. Dagli USA sono tornati, dopo circa
venticinque anni, i vecchi boss con i loro patrimoni mai sequestrati, li troviamo anche a
Vittoria e a Catania, ostentano una sorta di ritorno alla vecchia stagione mafiosa per la loro
rete di relazioni narcos e sudamericane: con il rischio di un ritorno alla violenza. Alcuni di
essi sono stati fotografati assieme ad esponenti dell’alta borghesia palermitana,
ripuliscono il denaro sporco in attività commerciali, di ristorazione e abbigliamento: così a
Palermo puoi anche gustare il gelato della mafia; mentre a Vittoria i soldi si lavano, fra
gli altri, nel settore del packaging
A Milano si stringono alleanze trasversali sul territorio per il riciclaggio di denaro sporco,
destinato, anche, al finanziamento di aziende modello. C’è una mafia difficile da
fotografare, direbbe Letizia Battaglia: un sistema criminale strutturalmente organizzato
che ha legami con un’alta borghesia corrotta ancora più difficile da raccontare. Oggi mafia
e antimafia sembrano tornati al tempo prima dei magistrati Falcone e Borsellino.
Per Floriana Bulfon, giornalista dell’Espresso, fra spettacolarizzazioni e semplificazioni,
generalmente si narra una mafia che già più non c’è. In effetti, spesso quando i fatti si
svolgono, se il giornalista non si trova sul posto, l’informazione senza rigore professionale
diventa narrazione pop.
Chi analizza e studia i sistemi criminali organizzati può raccontare, pertanto, quali sono le
nuove reali frontiere del malaffare globale e macroeconomico. A risalire le gerarchie si
trovano pochi personaggi, tutti latitanti, uomini ombra, hanno le mani pulite, non
macchiate di sangue; fanno in modo che la resa dei conti fra gang locali si risolva senza
alcun loro intervento diretto e si concluda in maniera più consona allo svolgimento dei loro
affari.
Nelle nuove frontiere della macro mafia uomini, ai più invisibili, sono in grado di
muovere ingenti quantità di merci e capitali; sono uomini che per descriverli è
necessario superare i vecchi stereotipi di quei boss che banalmente albergano
nell’immaginario collettivo. Per cui, dalle inchieste condotte dalla giornalista Bulfon
emerge che la centrale del narcotraffico non è più la Colombia, ma il Perù, una
sorta di << terra promessa>> della cocaina. Il governo Peruviano è meno controllato
dagli USA e i contadini – dopo il crollo dei prezzi del caffè, per via dei monopoli delle
multinazionali – sono spinti alla coltivazione della cocaina che cresce rigogliosa nei campi
Peruviani ed è altamente remunerativa.
Inoltre, mentre si penserebbe che i più ingenti carichi di droga possano trovarsi in
Calabria, Campania, Sicilia, si scopre invece che i maggiori porti europei di smercio di
stupefacenti sono Rotterdam e Anversa.
Il mondo digitale rappresenta, in particolar modo, la più recente e sofisticata frontiera di
approdo delle mafie che sempre di più istaurano legami con chi possiede le competenze
per padroneggiarne l’uso. Tuttavia in Svizzera non sono numerosi gli studi sull’uso del
digitale da parte del crimine organizzato. Per il giornalista Francesco Lepori della
Radiotelevisione svizzera l’attenzione va posta sul fatto che le mafie contemporanee
hanno comunque conquistato la rete per farne un uso distorto, veicolare “narrazioni
disfunzionali collettive”, manipolare e irretire, in tal modo, le pigre coscienze dei
frequentatori social.
La comparsa dei c.d. cellulari criptati è un potente e difficilmente penetrabile strumento
di comunicazione in mano alle mafie che possono, in maniera indisturbata, compiere affari
illeciti tramite telefono. Si osserva anche che, l’FBI, in alcuni casi è riuscita a “bucare” i
codici dei linguaggi criptati e meglio intercettare i relativi sistemi di comunicazione. In molti
paesi inoltre sono stati dichiarati illegali i telefonini che adottano simili linguaggi. In Italia
tuttavia non sono ancora vietati. E questo fa si che le mafie italiane possano ancora
costituire un punto di riferimento del crimine organizzato internazionale. Inoltre
nascondere l’origine e il percorso dei soldi si può comodamente fare inserendoli nel
sistema digitale delle criptovalute.
Infine, Gianluca Di Feo vicedirettore della Repubblica, racconta: le guerre, oltre a
seminare morte e distruzione attraverso le azioni militari dichiarate, sono anche un
potente moltiplicatore di attività illegali. In effetti, nelle zone colpite da eventi bellicosi
si creano reti logistiche per il traffico clandestino di armi, ma anche di merci, medicine
ed alimenti che scarseggiano per via degli embarghi inflitti agli stati in conflitto armato. E le
guerre provocano il fenomeno delle diaspore esponendo le popolazioni allo
sfruttamento e alla tratta soprattutto di donne e bambini.
Di fronte a un simile quadro risulta fondamentale immaginare di costruire forme di presidio
cittadino sul territorio, col fine di conoscere e contrastare ogni forma di pratica illegale.