L’epidemia del coronavirus ha scatenato nel nostro Paese reazioni inconsulte nei confronti di cittadini di origine cinese o di esercizi commerciali gestiti da cinesi. Tanto per fare un esempio, a Milano nel quartiere Chinatown i clienti sono calati del 50%, anche se i negozianti cinesi vivono là da anni. E’ come se nella mente scattasse un meccanismo automatico di correlazione tra colore della pelle e pericolo di contagio (“è di origine cinese, dunque portatore di virus”).
A ben vedere in questo atteggiamento non c’entra il coronavirus, ma un altro tipo di virus, non così pericoloso sul piano della salute, ma altrettanto temibile sul piano dei rapporti sociali, ossia il virus del pregiudizio. Il pregiudizio induce a stabilire generalizzazioni prescindendo dai dati empirici; è una sorta di dispositivo mentale che adottiamo per farci una certa idea di una persona o di una situazione (“è un migrante, quindi un delinquente”). In quanto dispositivi mentali, i pregiudizi fanno parte di noi stessi, poiché rispondono all’elementare esigenza di organizzare la realtà attraverso categorie schematiche: infatti, in base a pochi dati (aspetto esterno, etnia, lingua ecc.) inferiamo un determinato tipo di comportamento.
Nelle persone di basso livello culturale o autoritarie, i pregiudizi tendono ancor più a cristallizzarsi e a diventare delle vere e proprie zavorre mentali che non permettono di vedere la complessità del reale. Questo meccanismo lo conoscono bene i manipolatori delle masse, che fanno ricorso a giudizi sommari o stereotipi per raccogliere consenso. Ecco perché l’antidoto più efficace al virus del pregiudizio è l’educazione, che consente alle persone di venire a contatto con i propri personali pregiudizi e a governarli senza farsi ingabbiare in rigidi schemi di lettura della realtà.
L’educazione fa sperimentare ai giovani situazioni in cui si confrontano idee e opinioni diverse, in cui si portano dati a supporto delle tesi sostenute, in cui si analizza la congruenza tra quanto sostenuto e quanto riscontrato nella realtà empirica. I manipolatori delle coscienze, che diffondono e radicalizzano i pregiudizi, prediligono una comunicazione che parla alla “pancia” delle persone, cioè alle dimensioni più elementari e istintive, e quindi il messaggio è più immediatamente decodificabile dal destinatario. Al contrario, il processo educativo si rivolge soprattutto alla parte razionale, sollecitando l’utilizzo di dati, di confronti, di relazioni, di analisi e quindi il messaggio è molto più faticoso da elaborare ed è più difficile da decodificare per il destinatario.
Ma la formazione di cittadini consapevoli e responsabili non ammette scorciatoie: a differenza della scoperta del vaccino per debellare il coronavirus (che vedrà la luce sicuramente tra breve), l’elaborazione di un vaccino idoneo a contrastare i pregiudizi richiede un iter formativo che forse non ha mai fine.