Close

Fraternità e felicità pubblica

Dal periodico della comunità monastica “I figli di Dio”[1] traggo questo significativo invito alla riflessione.

La venerabile, mistica, poetessa ed assistente sociale Madeleine Debrel scriveva:” Impara l’arte della guerra su di te, sugli altri l’arte della pace….il primo gradino della mistica scala del silenzio è evitare d ascoltarsi parlare e il penultimo gradino della stessa è, si dice, ascoltare gli altri”…

Fare silenzio dentro di se è, pertanto, la condizione per accogliere la parola dell’altro…

La parola se ripiegata sul se non consente di aprire il proprio io  alla sintassi della relazionalità. L’ego allora si comprime dentro un perimetro, una clausura, come la chiamava Don Gnocchi, fino ad immiserirsi, fino a smarrire la grammatica dell’essere e così precipitare nell’abisso  disumano del nulla.

L’unica modalità per ciò stesso, atta a realizzare pienamente il sé è spingere quest’ultimo nel mare aperto dell’altro da sé, fino a riempirsi dell’Altro.

E in questa dimensione dell’Oltre, altrettanto abissale, si può abitare il territorio dell’infinto, dove il centro è ovunque ed il confine da nessuna parte.

Allora si che il verbo , la parola, il logos si fa carne a cominciare da quella dell’oppresso, dello scartato, dell’ultimo, del violato…

E di questo sorprendente incarnarsi, che inizia con lo scandalo della mangiatoia per finire con la follia della croce, dobbiamo innamorarci anche se è difficile.

Quella che precede è’ forse una riflessione intimistica, riservata agli addetti ai lavori religiosi ovvero essa è trasferibile sul terreno della  biografia personale,  dell’agire politico e sociale?

E’, cioe’, un percorso di ricerca confinato nel perimetro del fidelis ovvero può applicarsi alla  vicenda esistenziale dell’individuo e del civis?

E’ indubbio che l’essere umano abbia una irrinunziabile vocazione alla socialità, alla partecipazione alla vita della polis in buona sostanza una innata propensione alla politica.

Non meno vero è  che prendersi cura dell’altro dopo aver fatto spazio dentro di se, lo sporgersi verso l’altro da se, il  farsene  prossimo  è la via che conduce  alla autenticità della persona e di ogni sua azione, strappandolo alla logica senza anima dell’egoistico riversarsi sul privato, foriero dello scatenarsi dell’io bellico, del bellum omnium contra omnes.

Sentiamo, pertanto, di convenire con Nicolas Martino[2] quando scrive che è tempo allora  “… di provare a squadernare la potenza politica della fraternità[3]”.

Politica nel senso di arte nobile di progettare e realizzare la felicità pubblica, liberandosi dalle spire soffocanti  di quella privata, oggi diffusamente praticata ed assecondata dalla politica del possibile, espressione di un praticismo agnostico e di un realismo algido che contempla ed accetta l’ipotesi che pezzi di umanità possano regredire alla dimensione dello scarto,  come lucidamente e dolorosamente li definisce Papa Francesco.

Scrive Francesco che  “abbiamo bisogno di far crescere la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si salva. La povertà, il degrado, le sofferenze  di una zona della terra …..alla fine toccheranno tutto il pianeta.”

Ne consegue che sia ormai giunto il  tempo di  riaccostarsi ad un sistema valoriale, fondativo di un mondo diverso, utopico, lontano da quello distopico di oggi,  assuefatto alla idea percepita come ineluttabile realismo,  che fasce progressivamente crescenti della popolazione mondiale siano destinate  ad abitare quella parte di città terrestre dove non si ha diritto alla felicità.

Che al contrario la sconfitta, il non farcela viene stigmatizzata come colpa, che turba la soave siesta benpensante dei vincenti, tanto da offendere  il decoro dei loro centri ricchi ed “appetibili”, da  cui allontanarli con il “rassicurante”  daspo urbano.

Fratellanza allora diventa, in sintonia con il pensiero di  Martino,    l’idea della condivisione e della contaminazione (di lingue, sguardi, tradizioni e sentimenti), l’anelito verso un progetto di comunità fondata” sulla ricchezza delle differenze, che permette a tutti di perseverare nel proprio essere moltiplicando la gioia collettiva”.

E che il costrutto ontologico della politica declini il camminare insieme, il fare comunità lo scriveva già Don Lorenzo Milani[4] quando diceva che “…ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politicaSortirne da soli è l’avarizia”. (Lettera a una professoressa ). *

E’ evidente come  il termine comunità  rappresenti il connettivo degli itinerari  argomentativi che precedono.

E’ una delle tante parole logore di questa stagione delle parole violate ed abusate.  Come sogno, utopia, servizio, bene comune, rivoluzione, innovazione, legalità, trasparenza, efficienza, efficacia, anima, bene, bello…Parole simboliche, che non si sottraggono a questa stagione delle parole usurate, esauste, sfregiate,  manipolate…

Parole dalla formidabile potenza evocativa, ma che ciascuno di noi in questa temperie di individualismo dilagante, di ego ipertrofici, di narcisismo isterico, pensa di potersene appropriare, rivendicandone l’esclusiva.

Ne deriva la necessità di  fare attenzione  al significato del termine “comunità”  “ nel momento in cui da più parti si ripropone la comunità come garanzia di una identità che protegge dal contagio di ciò che è differente da noi, come promette di fare la comunità nazionale e sovrana. Una comunità chiusa e immune alla differenza è il contrario della fratellanza, e soprattutto è costitutivamente incapace di permettere una crescita esponenziale della democrazia come conditio sine qua non di una maggiore ricchezza complessiva. Ricchezza economica certamente, ma anche culturale e politica” (Martino).

A tal riguardo mi sembra particolarmente significativa   la coincidenza con le  tesi del filosofo  Roberto Esposito che coglie la differenza semantica tra  immunitas  (  termine negativo, privatistico, e privativo , cioè “senza munus”, senza officio pubblico, senza dono ) ed aprirsi alla cultura della communitas ( che al contrario derivando dall’etimo latino “cum munus”  ha un significato positivo e pubblico ).

Chiudo questi miei frammenti di pensiero   “al tramonto” con un invito rivolto  ai giovani. Si tratta di uno scritto – tra gli altri – che ha rappresentato una delle colonne  sonore di una stagione memorabile, quella del 68.

“ Voi giovani che avete vent’anni sarete la generazione più felice se avrete l’ intelligenza di lasciare una porta aperta , una finestra aperta  di casa vostra per lasciare entrare il dolore degli altri. Di fronte alle ingiustizie, alla violenze, alle oppressioni, non indietreggiate mai, non patteggiate mai.  Cercate, esigete, costruite  la felicità degli altri.

Formidabile la sintonia – cinquant’anni dopo –  con il pensiero di Enzo Bianchi[5] il quale sostiene che nella nostra vita, tante cose possiamo cercarle da soli, ma non la felicità: la felicità può essere cercata e trovata solo con gli altri, mai senza gli altri, mai contro gli altri. È una terribile illusione quella di poter essere felici da soli, pensando solo a se stessi!

Giovanni Scifo

– – –

[1] Fondata da Don Divo Barsotti, definito e riconosciuto l’ultimo mistico del 900.

[2] Editor della rivista “Opera Viva Magazine” Autore di libri e saggi.

[3] il termine fraternità che  rappresentava Il terzo vertice della nota triade  teorizzata dalla rivoluzione francese (assai lontana da sentimenti religioosi)  ha avuto, tuttavia, meno fortuna degli altri due (libertà ed eguaglianza) con i quali formava   una sorta di religione   laica che ha segnato la storia del XIX e del XX secolo.

[4] Priore di Barbiana. Noto fondatore della Scuola omonima.

[5] Fondatore della comunità monastica di  Bose.

scroll to top