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Il vivere in tempo di pandemia

L’imprevista diffusione del nuovo virus ha inevitabilmente messo in crisi il superficiale clima di “distrazione” (nel senso pascaliano del termine) connaturato ad un capitalismo che incentiva la tensione degli individui verso il benessere nella direzione di un consumo che appaghi. In ogni caso, e soprattutto, ha suscitato una sofferta inquietudine, testimoniata dai molteplici punti di vista che si stanno esprimendo con i vari mezzi di comunicazione.

Si tratta di quella inquietudine, sempre presente nella storia dell’uomo, che si manifesta con evidenza in occasione di eventi che minacciano esiti più o meno catastrofici e che rivela, a livello della sensibilità umana, l’abisso che separa il vivere dal cessare di vivere. Non potevano mancare, dunque, molteplici interpretazioni relative al rapporto tra uomo e natura, tra uomo e scienza, tra uomo e presunte potenze soprannaturali, tra uomo e stili di vita e valori. Accanto alle immediate e pratiche discussioni concernenti i sistemi di contrasto alla diffusione e letalità del virus, non poteva non esserci l’esame di problemi riguardanti il senso da conferire all’apparire di un fenomeno che può incidere sulla sopravvivenza di (moltissimi) uomini (ci si chiede ad esempio se la vita abbia un qualche fondamento che possa darle un apprezzabile appagamento).

L’evento di cui si sta parlando ha, intanto, mostrato che la scienza ha sì una notevole importanza (importante è scoprire al più presto un vaccino e terapie efficaci), ma non può essere elevata a idolo risolutore della complessità dei problemi della vita umana. La scienza, intanto, non è così onnipotente da trovare immediatamente la soluzione per tutte le patologie che via via si manifestano. Essa ha, inoltre, solo un compito: scoprire i mezzi atti a garantire la sopravvivenza dell’organismo biologico. Ma il vivere presenta una serie di componenti che vanno al di là dei compiti della scienza come comunemente è intesa dopo la rivoluzione galileiana. Cioè di una scienza atta a misurare fenomeni fisici e capace di spiegare i processi che li riguardano, e i cui principi sono quelli propri delle scienze per antonomasia (la scienza fisica e quella chimica).

Sulla natura, poi, sono apparse tesi, che, pur non trascurando la necessità della ricerca per trovare rimedi adeguati, tendono a placare l’inquietudine a cui si è fatto cenno, quasi invitando ad accettare quello che sarebbe uno stato naturale. Si dice, ad esempio, che la vita e la morte sono le due facce della natura tra loro connesse: la natura produce la vita e la estingue e viceversa. Ma accanto a questo tipo di visione ce ne sono altre che, di fronte all’impotenza dell’uomo davanti a eventi naturali catastrofici, cerca di placare la forte inquietudine, ricorrendo al soccorso di potenze superiori da rendersi amiche e benevole soccorritrici. Il vertice di questa propensione, che esiste dalla notte dei tempi, è costituito dalla concezione di un dio onnipotente, che ha espresso la sua  potenza nella creazione del mondo e può manifestarla intervenendo in esso, quando  lo vuole. In questi giorni significative sono le preghiere elevate da rappresentanti religiosi autorevoli, dal successo di partecipazione alla recita del rosario curata da una radio cattolica, e, per restare alla nostra Sicilia, le preghiere rivolte alle famose patrone di Palermo e Catania, santa Rosalia e sant’Agata.

Ma all’interno di questa posizione in un certo numero di credenti si manifesta un profilo culturale collaterale (basta anche visionare messaggi apparsi su Facebook) che forse nasce dal fatto che potrebbe essere considerato contraddittorio chiedere al dio onnipotente di intervenire, visto che la sua onnipotenza poteva già creare un mondo dove non si verificassero eventi naturali devastanti. E allora tali eventi debbono potersi giustificare diversamente dalla mera spiegazione scientifica: sono i peccati degli uomini che hanno provocato tali eventi o, comunque, sono gli uomini a meritarli. Dio, ma questo certamente non è il dio di Gesù, interverrebbe così per punire gli uomini e rimetterli sulla strada dell’osservanza della sua legge.

In questi giorni un letterato frequentemente citato è il premio Nobel Albert Camus. Viene citato per un suo capolavoro, il romanzo “La peste” che narra della peste che sconvolge la città algerina di Orano e che in questi mesi ha registrato una notevole vendita di copie. Camus, tra l’altro, dice cose molto significative anche in relazione a quanto poco sopra si è detto. Nel momento in cui esplode la peste ad Orano da circa una settimana, narra Camus, la cattedrale è stracolma di cittadini, molti dei quali in tempi normali non avevano mostrato di essere “particolarmente religiosi”. La Domenica celebra la messa padre Paneloux, dotto gesuita, il quale dà inizio alla sua accesa omelia con una frase veemente: ”Fratelli miei, voi siete nella sventura, fratelli miei, voi lo avete meritato”, per poi spiegare riferendosi a dio: “E per questo stanco di aspettare la vostra venuta, ha lasciato che il flagello vi visitasse come ha visitato tutte le città del peccato da che gli uomini hanno una storia. Adesso voi sapete cosa sia il peccato”.

Ma questa posizione così intransigente non viene accettata da Bernard Rieux, il medico protagonista del romanzo, che senza risparmiarsi assiste i malati  anche quelli moribondi. Rieux obietta:” Ho troppo vissuto negli ospedali per amare l’idea di un castigo collettivo….quando si vedono la miseria e il dolore che porta, bisogna essere pazzi, ciechi e vili per rassegnarsi alla peste”. Quindi Rieux dice che, lasciando perdere le dispute dottrinarie “ per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi, essi rifletteranno, e anch’io. Ma la cosa più urgente è guarirli e li difendo come posso”. Rieux, sottolinea Camus, “credeva di essere nella via della verità, lottando contro la creazione come essa è”. E l’elemento fondamentale della rivolta di Rieux contro tutto ciò che deturpa il volto dell’uomo facendolo soffrire è ciò di cui si può sperimentare subito il valore: l’amore verso gli altri uomini comprensivo di tutto quello che si può fare per essi. Ecco, dell’attuale momento, quello che in ogni caso merita di essere evidenziato è  lo spirito di solidarietà.

In fondo tutto il personale sanitario che si sta prendendo cura delle persone ammalate è come Rieux: ma non solo loro, perché ad essi vanno aggiunti tutti coloro che stanno lavorando per assicurare i servizi essenziali. Tra gli altri in un certo senso è come Rieux anche l’anonima commessa di un supermercato qualsiasi. Bisogna pensare, in definitiva, che la fragilità dell’uomo è lo stimolo per costruire un mondo ricco di umanità e di valori, di cui probabilmente alcuni ancora da scoprire, che caratterizzano questa umanità. E’ forse eccessivo pensare che non esiste solo un’evoluzione biologica, ma un’evoluzione dell’uomo in quanto uomo, il cui motore è l’amore dell’uomo nei confronti di tutti i valori che ne evidenziano la dignità, e nel quale trova spazio anche la ricerca di un fondamento alla stabilità della vita che ne perpetui la bellezza?

Dott. Rocco Agnone
già Dirigente Ufficio Scolastico Provinciale

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